Un mio collega romando, quando ci si lasciava andare, ogni tanto, ai ricordi, mi raccontava che suo padre spesso gli diceva: «Povero figliolo, non hai visto giocare Sindelar». Alludeva a Matthias Sindelar, capitano del wunderteam austriaco che dominò la scena europea negli anni Trenta. Potremmo dire la stessa cosa noi a chi non ha visto giocare Riva IV. Io ho avuto la fortuna di vederlo spesso in azione, il Puci, al vecchio Comacini, con la maglia del Chiasso. Era un Gigi Riva prima maniera. Stesso nome, stesso ruolo, stesso numero di maglia, l’11. La sua velocità a rientrare, sulla fascia, era difficilmente contenibile, i suoi dribbling roba da funamboli, il suo tiro sempre preciso, angolato, là dove anche i migliori portieri non riuscivano ad arrivare. Era un astuto, Puci Riva. Lo vedevi, sornione, prendere le misure del terzino che lo aspettava al varco in attesa di trovare la soluzione migliore per infilarlo. A proposito di terzini, Riva giocò con la Svizzera un’amichevole memorabile contro il Brasile all’Hardturm di Zurigo. In quella squadra erano già presenti alcuni giocatori che si sarebbero laureati campioni del mondo a Stoccolma nel ’58.
Nella formazione rossocrociata di quella sera c’erano ben tre ticinesi. Permunian, in porta, del Bellinzona, Chiesa e Riva IV in attacco, del Chiasso. La partita finì 1-1 e Riva e Chiesa furono marcati da due fra i più grandi terzini della storia del calcio, Nilton Santos e Dyalma Santos. E come non ricordare il gol contro l’Italia a Lugano, nell’incontro inaugurale dello Stadio di Cornaredo, nel ’51, e quello altrettanto importante nella vittoriosa amichevole di Francoforte, 3-1, contro la Germania. Il suo percorso in nazionale avrebbe potuto essere più glorioso se Riva non avesse trovato sul suo cammino un giocatore fortissimo, nel suo stesso ruolo, come Jacques Fatton, leader del Servette. Era uomo di poche parole, il Puci. Piuttosto schivo, evitava le interviste, ma quando parlava rispondeva con il cuore. Ogni tanto dava qualche dritta ai giovani. Pierre Boffi mi confidava che ogni tanto gli diceva: «Lascia stare i giochetti. Quando sei in buona posizione, tu pensa a tirare». Il suo era un calcio spontaneo, non costruito, in un’epoca in cui le grandi speculazioni tattiche ancora non c’erano. Era l’istinto a fare la differenza. E Riva era un istintivo, capace di trovare sempre in campo la soluzione migliore per andare in gol. Sono molti i ticinesi che hanno vestito la maglia della nazionale ma io resto dell’avviso che sia lui la vera icona del nostro calcio. Per la sua classe, per quel suo nome che è rimasto legato fin dall’avvio a un numero (era il quarto di cinque fratelli), per quel suo essere sempre così vicino alla gente, per la sua passione per il calcio. Riva ha giocato fino a quarant’anni. Non più ormai titolare della prima squadra, ma puntuale nella compagine delle riserve, raccontano che ogni tanto, prima delle partite, arrivava per primo negli spogliatoi per accaparrarsi una maglia ed essere così sicuro di giocare. Ancora di recente, fin quando è stato in grado di seguire le partite in tribuna, quando le cose per il Chiasso si mettevano male, c’era qualcuno che gli gridava: «Puci, cambiati». E lui si voltava, sorridendo, con un po’ di malinconia, rispondeva che ormai i bei tempi erano passati. Ma noi siamo sicuri che, dentro di lui , era ancora grande la voglia di alzarsi e di scendere giù negli spogliatoi dello stadio che da poco porta il suo nome e che prossimamente gli verrà ufficialmente intitolato. Purtroppo Puci non ci sarà a ricevere l’ultimo applauso.